L’anniversario dei 150 anni dalla terza guerra d’indipendenza è trascorso sotto silenzio o quasi. Non hanno suonato fanfare. Non hanno sventolato bandiere. Forse perché quella guerra che l’Italia, alleata della Prussia del cancelliere Bismarck e del generalissimo von Moltke, dichiarò all’Austria il 20 giugno 1866, riservò solo sconfitte per terra (Custoza, 24 giugno) e per mare (Lissa, 20 luglio) e magre figure. Non per colpa o demerito dei soldati, che anzi seppero rendersi protagonisti di episodi di coraggio e anche di autentico eroismo. Fu una guerra nata nel segno dell’ambiguità ancora prima che venisse sparato il primo colpo di fucile o risuonasse la prima cannonata. Le rivalità fra i comandi (a cominciare da quella che divideva La Marmora e Cialdini), le indecisioni, le incomprensioni, fecero il resto annullando la superiorità numerica e di mezzi, 250mila uomini contro i 190mila imperiali al comando dell’arciduca Alberto, dodici corazzate contro le sette austriache dell’ammiraglio Tegethoff.
Chi poteva salvare l’onore delle patrie armi? Soltanto lui: Garibaldi. Alfonso La Marmora, che aveva passato la mano come presidente del Consiglio dopo essere stato nominato capo di Stato maggiore, aveva assegnato ai volontari il Trentino per tenerli lontani dal principale teatro di operazioni. Il 21 luglio Garibaldi sloggiò gli austriaci da Bezzecca, a prezzo di perdite (121 morti, 451 feriti, 1070 prigionieri) molto più gravi di quelle patite dagli imperiali del generale Kuhn. La via del Tirolo era aperta, ma sopravvenne la tregua del 3 agosto. Il 10 arrivò l’ordine di ritirata, a cui un amareggiato ma disciplinato Garibaldi rispose con il telegramma “Ho ricevuto il dispaccio n. 1073. Obbedisco”, consegnato ai libri di storia con il più sincopato e patriottico “Obbedisco“. Per molte generazioni l’unico ricordo di quella guerra sfortunata.
Per nostra fortuna i prussiani avevano annientato il nemico a Sadowa. L’Austria cedette il Veneto, amputato del Trentino, a Napoleone III, imperatore dei francesi, che a sua volta lo consegnò a Vittorio Emanuele. Un balletto umiliante che consentì però al carciofo del regno neonato di aggiungersi un’altra foglia. Gli italiani avevano perduto la guerra. Ma dal momento che l’avevano combattuta dalla parte giusta, l’avevano anche vinta.
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