Singolare destino per gli uomini d’arme francesi. Cambronne è stato consegnato alla Storia (con la maiuscola) per una parola di troppo, un icastico e maleodorante bisillabo sfuggito in un momento di nervi all’epilogo della battaglia di Waterloo. Il signore de La Palice (o Lapalisse) è famoso più che per le sue virtù militari per quell’aggettivo, “lapalissiano”, da sempre nell’uso corrente come sinonimo di qualcosa di palesemente tautologico, talmente ovvio, evidente, scontato, da risultare ridicolo.
Jacques de Chabannes de La Palice, un bel nome, alto e solenne, adatto a un maresciallo di Francia, nato a La Palice nel 1470 o giù di lì, uomo di nobili lombi, signore di La Palice, Pacy, Chauverothe, Bort-le-Comte, Le Héron. Francia e Spagna si contendono la supremazia in Europa. Nel 1524 La Palice segue re Francesco I in Italia. Il 28 ottobre i francesi mettono l’assedio a Pavia, difesa da un migliaio di spagnoli e da circa cinquemila lanzichenecchi, al comando dello spagnolo Antonio de Leyva (un cognome che lettori di Manzoni dovrebbe ricordare una certa Virginia de Leyva, suor Gertrude, la sventurata rispose e altro). Il destino marcia con gli stivali di un’armata imperiale guidata da Fernando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara. Il 25 febbraio 1525 è il giorno della resa dei conti fra le due potenze rivali. Francesco I cade nelle mani del nemico, il suo esercito è distrutto.
Fra le migliaia di cadaveri c’è anche quello del signore de La Palice. E’ un comandante amato. I suoi soldati gli dedicano un epitaffio, una sorte di canzone funebre, ignari che stanno per consegnare il loro maresciallo a una curiosa immortalità: “Ci-git Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il ferait encore envie” (“Qui giace il signor de La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia”). Il tempo non sempre è galantuomo e passa, inevitabilmente per le bocche, le scritture, gli estri e le distrazioni degli uomini. Accade così che la effe di “ferait” venga letta come esse (le grafie delle due parole, al tempo, sono assai simili e c’è anche un gioco di assonanze) e che un colpo di cesoia divida “envie” (“invidia”) in “en vie” tramutandolo in “in vita”. Risultato: “Qui giace il signor de La Palice. Se non fose morto, sarebbe ancora in vita”. Lapalissiano.
Al resto provvedono i posteri. Un secolo dopo la morte del maresciallo, Bernard de La Monnoye, accademico di Francia vissuto dal 1641 al 1728, gli dedica una ironica canzoncina con versi cone “Morto è il signor de la Palisse, morto davanti a Pavia. Un quarto d’ora prima di morire, era in vita tuttavia” oppure “Fu per una triste sorte ferito da una mano crudele. Si crede, poiché ne è morto, che la ferita fosse mortale”. E ancora “Rimpianto dai suoi soldati, morì degno d’invidia, e il giorno del suo trapasso fu l’ultimo dela sua vita”. Molto in voga all’epoca, la canzone cade poi nell’oblio. Fino all’800, quando Edmond de Goncourt la recpuera e conia il termne “lapalissade”, per indicare una verità scontata.
Lapalissiano.
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